Contro il clericalismo

Contro il clericalismo

Il Papa scrive ai preti di Roma, ma si rivolge a tutti i cristiani.

Una lettera piena di gratitudine al clero romano, scritta a Lisbona il 5 agosto, durante la Giornata mondiale dei Giovani, come uno scambio di sguardi pieni di cura e compassione, «imparando da Gesù che così guardava gli apostoli, senza esigere da loro una tabella di marcia dettata dal criterio dell’efficienza, ma offrendo attenzioni e ristoro».

E Francesco condivide con i suoi preti una domanda, scaturita dal suo incontro personale con Gesù Cristo: «In questo nostro tempo che cosa ci chiede il Signore, dove ci orienta lo Spirito che ci ha unti e inviati come apostoli del Vangelo?».

Da questa domanda e dalla sua preghiera, il Papa invita a lottare contro la «mondanità spirituale», la più pericolosa di tutte le mondanità.

«La mondanità spirituale, infatti, è pericolosa perché è un modo di vivere che riduce la spiritualità ad apparenza: ci porta a essere “mestieranti dello spirito”, uomini rivestiti di forme sacrali che in realtà continuano a pensare e agire secondo le mode del mondo. Ciò accade quando ci lasciamo affascinare dalle seduzioni dell’effimero, dalla mediocrità e dall’abitudinarietà, dalle tentazioni del potere e dell’influenza sociale. E, ancora, da vanagloria e narcisismo, da intransigenze dottrinali ed estetismi liturgici».

Non si tratta altro che della «versione aggiornata» di quel formalismo ipocrita che Gesù denunciava, incontrando le autorità religiose del suo tempo. La tentazione “gentile” di agire in nome di Dio, ma non con Dio, che finiamo un po’ tutti col giustificare con l’espressione classica: “a fin di bene”.

Francesco decide di soffermarsi su un aspetto specifico di questa pericolosa mondanità, già menzionata in tante altre occasioni: il clericalismo. «Quando, magari senza accorgercene, diamo a vedere alla gente di essere superiori, privilegiati, collocati “in alto” e quindi separati dal resto del Popolo santo di Dio».

Così accade che ci si dimentichi la propria condizione di esuli, servi, pellegrini, in favore delle diaboliche logiche del possesso, della superiorità, della stanzialità.

Profetizza Ezechiele contro le autorità religiose del suo tempo:

«Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (Ez 34,3-4).

Ogni autorità, comprese quelle religiose, corre il rischio dell’autoreferenzialità, cioè di nutrire sé stessi e i propri interessi, alla ricerca della sicurezza e della tranquillità.

Quando il pastore diventa ingordo e si occupa di ottenere “lana” e “latte”, più che della felicità del suo gregge, senza prendersi cura delle pecore più deboli, «dando l’impressione d’annunziare il Vangelo per sbarcare il lunario loro personalmente, ma dispensino agli altri la luce della parola di verità che li illumini», scrive sant’Agostino. Preso dagli ornamenti esteriori, dalle lodi degli uomini, dal prestigio, dalla fama, dalla ricchezza, dal successo. Naturalmente “a fin di bene” e “per amore della Chiesa”.

Il vescovo d’Ippona avverte che si può finire a formulare ragionamenti simili: «Che me ne importa? Ciascuno faccia ciò che gli piace; il mio sostentamento è assicurato, e così pure il mio onore. Ho latte e lana a sufficienza. Vada pure ciascuno dove gli pare».

Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo; sono gli altri che non si muovono. Noi abbiamo fatto i nostri programmi e lanciato le nostre iniziative; sono gli altri che non partecipano. Noi abbiamo stabilito le nostre dottrine e fissato i nostri riti; sono gli altri che non vi si adeguano. E continuiamo a formulare ipotesi, a elaborare analisi, a inventare pastorali, a emettere sentenze.

Dobbiamo smettere di tenere lo sguardo ripiegato sulle nostre formule, sulle nostre strutture, sui nostri programmi, sulle nostre tradizioni, sulle nostre abitudini, sul “si è fatto sempre così”. E guardare altrove.

Naturalmente, il clericalismo è così aggressivo da contaminare la vita di tutta la Chiesa e non solo dei pastori; fino a insidiare l’azione dei laici e di quelli che oggi chiamiamo gli “operatori pastorali”, quando si vive la propria appartenenza alla comunità in modo elitario, «chiudendosi nel proprio gruppo ed erigendo muri verso l’esterno, sviluppando legami possessivi nei confronti dei ruoli nella comunità, coltivando atteggiamenti boriosi e arroganti verso gli altri».

Il frutto del clericalismo, che può colpire vescovi, preti, frati, suore e tutti gli altri, i nostri gruppi e le nostre associazioni, è «la lamentela, la negatività e l’insoddisfazione cronica per ciò che non va, l’ironia che diventa cinismo». E invece di aiutare il mondo ad uscire dalle sabbie mobili dell’insofferenza, nel clima di critica e di rabbia che si respira in giro, vi rimaniamo intrappolati.

Mi riconosco prigioniero anche io di questo spirito maligno, incapace in trovare segni di speranza nella Chiesa alla quale oggi appartengo. Mi sento spesso come tanti che si lamentano, desiderando di andarsene altrove.

Non sono immune dal male dello scoraggiamento e della lamentela, che può essere vinto, quando smetto di ritenermi migliore degli altri, riconosco il mio limite e il mio peccato, meravigliato dal fatto che Dio non smetta di guardarmi con amore, di volermi con Lui, di scegliermi come suo amico.

In quello sguardo, scopro il male e ritrovo tutto quello che manca.

«Abbiamo bisogno di guardare proprio a Gesù, alla compassione con cui Egli vede la nostra umanità ferita, alla gratuità con cui ha offerto la sua vita per noi sulla croce. Ecco l’antidoto quotidiano alla mondanità e al clericalismo: guardare Gesù crocifisso, fissare gli occhi ogni giorno su di Lui che ha svuotato sé stesso e si è umiliato per noi fino alla morte (cfr Fil 2,7-8). Egli ha accettato l’umiliazione per rialzarci dalle nostre cadute e liberarci dal potere del male. Così, guardando le piaghe di Gesù, guardando Lui umiliato, impariamo che siamo chiamati a offrire noi stessi, a farci pane spezzato per chi ha fame, a condividere il cammino di chi è affaticato e oppresso».

E allora mi metto in cammino, insieme a tutti gli altri, per trovare ristoro alle sorgenti evangeliche, per scoprire energie fresche e superare le abitudini, per immettere uno spirito nuovo nelle vecchie istituzioni ecclesiali, affinché non accada a me e a tutti gli altri di essere una Chiesa «ricca nella sua autorità e nella sua sicurezza, ma poco apostolica e mediocremente evangelica».

Nonostante le fragilità, le delusioni, la rabbia e le inadeguatezze.

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1 commento

Grazie per aver condiviso questo bel testo di Papa Francesco
Tutto quel che ha detto ai sacerdoti e alle consacrate vale altrettanto per noi laici che abbiamo spesso la tentazione di soppesaregiudicare condannare e soprattutto lamentarci
E dimentichiamo il Deo gratias la preghiera di ringraziamento per quando le cose vanno bene, per quando i guai si aggiustano, per quando viviamo momenti belli di serenità
Ricordaci Signore di dirti grazie😇

Vitt

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