Toccare il fondo (Osea 2,1-3)

Toccare il fondo (Osea 2,1-3)

Al massimo livello del dramma, appena annunciata la demolizione totale di ogni speranza, il libro di Osea cambia completamente tono e prospettiva.

Dopo la nascita di Izreèl, Non Amata e Non Mio Popolo, che introducono al tempo della desolazione e della devastazione definitiva, la profezia di una generazione numerosa e nuova. Una nazione di figlie e figli. Un popolo prospero, amato, del Signore. L’opposto della precedente profezia.

Gli studiosi della Bibbia si sono trovati a disagio davanti a questo improvviso rovesciamento di prospettiva. Questa formale contraddizione. Forse un testo, finito lì per caso o aggiunto posteriormente? Forse una svista, un frammento da collocare altrove?

O forse il palpito di un cuore perdutamente innamorato?

Ogni tanto mi chiamano a parlare di Gesù da qualche parte. Una di queste volte, ricordo di essere partito prestissimo, con l’ansia di non essere puntuale. Ma nel tragitto è accaduto di tutto.

Chiuso il distributore di metano, con conseguente deviazione obbligatoria, per il rifornimento. Stazione di servizio invasa da un’orda di pellegrini diretti al vicino santuario mariano. Autostrada interrotta a causa di un brutto incidente e relativi rallentamenti. E poi il traffico cittadino.

Arrivai con un’ora e un quarto di ritardo, rispetto all’orario programmato.

Entrando nel luogo della riunione, andavo trovando parole, espressioni e gesti, per esprimere il mio rammarico e la mia mancanza. E invece, sorpresa!

Non avevano ancora cominciato. Molti non erano ancora arrivati. Avevo confuso l’orario dell’appuntamento: alle 11 anziché alle 9. Ero in anticipo.

Invece di dovermi scusare e giustificare, saluti e abbracci. Ho goduto un sollievo inaspettato e una pace sconcertante. Emotivamente destabilizzato ma incredibilmente in pace con tutto e tutti.

Dev’essere la stessa destabilizzazione e la stessa pace, davanti al palpito del cuore perdutamente innamorato di Dio.

Gesù ce la racconta nella parabola di quel padre e dei suoi due figli, dei quali uno sempre con lui e l’altro, che se ne va di casa per sentirsi libero. La tradizione cristiana ha definito questo figlio “prodigo”.

Dopo il fallimento totale e irrimediabile di ogni sua istanza di felicità e indipendenza, deve tornare nella casa paterna, per non morire di fame. Disperato, lungo tutto il viaggio, cerca parole adatte a giustificarsi. Dall’altra parte il padre, sempre in attesa di un improbabile, che a sua volta cerca parole adatte a dire al figlio perduto tutto il suo amore, mentre lo abbraccia.

Commenta papa Francesco: «La sorpresa è stata che quando incominciò a parlare, a chiedere perdono, il padre non lo lasciò parlare, lo abbracciò, lo baciò e fece festa. Ma io vi dico: ogni volta che noi ci confessiamo, Dio ci abbraccia, Dio fa festa!».

Così deve essere il palpito di un cuore perdutamente innamorato.

Si scalda, sopporta, prova a mandare segnali di avvertimento, si infiamma, ad un certo punto esplode. Rabbia, delusione, risentimento, istinto di sopravvivenza. E annuncia l’impossibilità di ogni ulteriore proroga, in una relazione praticamente irrecuperabile. Ma subito dopo, forse anche simultaneamente, il pensiero dell’assenza, la voglia di riprovarci, la speranza che questa volta andrà meglio, che l’altro è cambiato. Forse.

E allora ti salterei addosso per farti male, ti ammazzerei, non posso più sprecare il mio amore con te, non voglio avere più nulla a che fare con le tue storie. E quando avrai bisogno di me, non ci sarò. Tu per me sei morto.

Ma nel mio cuore palpitante di amore non si toglie quel desiderio, quella speranza, quella necessità di averti. Generare con te tanti figli. Mostrare agli altri che tu sei prezioso, meritevole, ricco di possibilità.

Così ho conosciuto Dio nella verità. Me lo avevano raccontato i miei genitori, me lo avevano insegnato preti e catechisti, in qualche modo ne avevo sperimentato l’esistenza nella vita parrocchiale, nel trovare un senso alla mia vita, nel sapermi utile agli altri e dagli altri apprezzato.

Ma Dio l’ho conosciuto nell’ora della caduta. Quando ho fallito e ho perso l’orientamento. Gli altri mi vedevano ancora sicuro, giusto, devoto, infervorato di fede e di amore. La realtà era la caduta. Il fallimento, l’assenza di prospettiva.

Solo allora ho saputo il significato di quel canto: «lassù mi è rimasto Dio». Nessuno sapeva, ma se avessero saputo probabilmente mi avrebbero giudicato, condannato e abbandonato. Dio, che sapeva, è rimasto. Ha lasciato che mi spogliassero di ogni mia certezza ed è rimasto lui solo.

Lo dice anche il vangelo di Gesù. Nella paura, nella tempesta, nell’incomprensione, nella fatica, nel peccato, nella morte: rimase lui solo. Tutti gli altri accusano, colpiscono e se ne vanno.

Sant'Agostino commenta l'incontro tra Gesù e la donna adultera, che tutti avrebbero voluto lapidare: «Rimase lui solo, Gesù, e lei sola, la peccatrice; rimase il creatore e la creatura; rimase la miseria e la misericordia».

 «Remansit solus et sola; remansit creator et creatura; remansit miseria et misericordia».

Ho conosciuto Dio da peccatore, perché non mi ha condannato. Ho conosciuto Dio dentro le mie ferite, perché ha avuto la pazienza di guarirmi. Ho conosciuto Dio nella mia disperazione ribelle, perché non se n’è andato. Non si è vergognato di me, neanche quando avrebbe dovuto. Mi ha aspettato, per potermi abbracciare.

Davvero è un mistero la fede!

E così il profeta al popolo ingrato e idolatra:

«Il numero degli Israeliti
sarà come la sabbia del mare,
che non si può misurare né contare.
E avverrà che invece di dire loro:
"Voi non siete popolo mio",
si dirà loro: "Siete figli del Dio vivente".
I figli di Giuda e i figli d'Israele
si riuniranno insieme,
si daranno un unico capo
e saliranno dalla terra,
perché grande sarà il giorno di Izreèl!
Dite ai vostri fratelli: "Popolo mio",
e alle vostre sorelle: "Amata"» (Osea 2,1-3).

Tornando all’esperienza della confusione di orario, mi chiedo cosa sarebbe accaduto se avessi pensato: «Ormai sono in ritardo abissale, meglio non presentarmi affatto. Mi giustifico, mi arrendo». Quanti “ormai” condizionano le scelte e la vita? Ho scoperto, invece, che nel cuore innamorato di Dio vince sempre “ancora”.

Perché è sempre il tempo della Speranza e mai della rassegnazione, della Misericordia e mai della colpa o della condanna.

A volte lo dimentichiamo, perché è più facile giudicare che amare. Sentirsi in colpa, anziché fare scelte nuove. Dire “ormai”, piuttosto che “ancora”.

Questo meriti. E questo è quanto ti amo.

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